Handbike. Luca Mazzone: “Devo tutto al nuoto e al mio idolo, Luca Pancalli”
Handbike. Luca Mazzone: “Devo tutto al nuoto e al mio idolo, Luca Pancalli”
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Luca Mazzone alle note dell'Inno ancora non si è abituato, si commuove alle lacrime e in forma strepitosa come sta, alla soglia dei 50 anni, ad appendere la pedivella al chiodo nemmeno ci pensa.
L'azzurro di Terlizzi (BA), che ogni anno in sella alla sua handbike anziché invecchiare migliora, come un buon vino pugliese, deve la sua fortuna umana e sportiva, nell'ordine: alla sfortuna di un tuffo maldestro a 19 anni, quando urta il collo contro uno scoglio e si risveglia paraplegico, alla straordinaria curiosità innata, alla disciplina ferrea acquisita con lo sport e all'ammirazione sconfinata per un idolo del nuoto, un altro ‘Luca', come lui in carrozzina, che riempiva le pagine dei giornali e la bocca del pubblico.
“Per me lui era come Popov per i normodotati,- racconta: devo tutto alle sue imprese che leggevo sui giornali”. ‘Lui' è Luca Pancalli, lo ha rincorso come un'ossessione, in sogno e in acqua, macinando chilometri a stile libero, rana, dorso e delfino. Voleva imitarlo. Il suo carattere di ferro l'ha temprato proprio così, tutti quegli anni su e giù in vasca, solo con le proprie braccia e la fatica e i pensieri, a fissare la striscia nera del pavimento e scaricare bracciate. “Quella monotonia, la ripetitività e la mancanza costante di visuale, ti forgiano”. Altro che noia, Mazzone ha scritto allora, in piscina, le prime pagine di un romanzo avvincente, solo nel pieno e ancora lungo da scrivere.
“Dei miei esordi nel nuoto parlavo proprio ieri al mio fisioterapista – racconta, mentre è in raduno con il gruppo azzurro del paraciclismo sull'Altopiano delle Rocche, in preparazione ai Mondiali di Olanda (12-15 settembre) -. Non è preistoria, anzi. Se nel ciclismo sono arrivato tante volte primo al traguardo, lo devo solo ed esclusivamente ai lunghi anni in vasca, alla metodica che mi ha insegnato, alla disciplina. Il nuoto è uno stile di vita, molto più che uno sport”.
Dalla riabilitazione dopo il tuffo maledetto nel 1990, alla classificazione come atleta paralimpico, alle competizioni mondiali, il passo è stato breve e soprattutto stimolato da questa voglia di emulazione. “Volevo fare quello che avevo visto fare da Luca ad Atlanta 1996, rincorrevo il mio idolo, volevo i suoi record del mondo, potevo dimostrare di essere anche io un fenomeno in acqua”.
Così fioccano traguardi e medaglie, a Sydney 2000 il trionfo e i titoli sui giornali, stavolta per lui, con due argenti nello stile libero: “Riesco a superare il suo record sui 200 stile, con 3.18, sotto il suo di otto centesimi. Quando anni dopo l'ho conosciuto, ricordo la mia emozione, mi fece i complimenti e aggiunse: “però a delfino e dorso non hai il fisico per starmi dietro”-, ride.
Dopo Sydney le altre medaglie paralimpiche si sono fatte attendere oltre tre lustri, cambiando effige sportiva. Dopo Pechino 2008, il ritiro dalle competizioni. Poi tre anni di limbo e di astinenza dalla ‘felicità' di competere. “Mi sono pentito presto di essermi ritirato, non ero più felice, mi mancava l'allenamento e le gare”. Poi sul tavolo è arrivata la carta dell'handbike e la chiamata di Mario Valentini, il tecnico nazionale, nella squadra di paraciclismo. A partire dal 2013, arrivano le medaglie mondiali pesantissime: una ricca sequenza di 16 tra ori e argenti, nelle gare su strada a cronometro, inseguimento e in staffetta.
“In Olanda arrivo al meglio, dopo questo lunghissimo soggiorno in altura – racconta. Tutte le mie energie sono convogliate a questo traguardo, e dalla Coppa del Mondo canadese conclusa da poco ho avuto ottimi riscontri di tempo, rispetto ai miei avversari diretti”.
Se devo dire una qualità fondamentale per questi due sport, ‘sopportare la fatica mentale', direi, è questo il segreto per arrivare in alto sia nel nuoto che nell'handbike. E non chiudersi nella prigione mentale in cui molti nelle mie condizioni si sono chiusi o si chiuderebbero per pigrizia, per pregiudizio, per debolezza”. Ci ha scritto addirittura un libro sulla gabbia della paralisi mentale, Luca, si chiama La prigione dell'impossibile. Siamo noi stessi a chiuderci le prospettive, in un recinto che pensiamo ci protegga, evitando il contatto con l'esterno e di metterci in gioco. Invece la vita va scoperta in tutte le sue mille possibilità. Faccio sempre il paragone con il film Sliding Doors: se io quel giorno di trenta anni fa non avessi aperto la porta della piscina, innamorandomi del nuoto e della fatica dell'allenamento, adesso non so cosa sarei. Anzi sì, sarei invecchiato precocemente, grasso, non avrei visitato mezzo mondo e tutte le sue meraviglie, sarei forse depresso e ancora arrabbiato con la vita”. Che invece “è bellissima e sempre da scoprire, con tutte le sorprese che ha in serbo”, pensa Luca.
“Con Vittorio, Alex e Francesca scherziamo, sul loro e mio ritiro. Loro dicono che lasceranno dopo Tokyo. Io non dirò mai più che mi ritiro, la prima volta è bastata: finché sto così bene e l'handbike resterà l'amore della mia vita, io continuo”.