Tennistavolo: i Giochi nei ricordi di Alessandro Arcigli
Per il tecnico azzurro si tratta della sesta volta a una Paralimpiade
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Sta preparando la spedizione alle Paralimpiadi Parigi, che scatteranno il 28 agosto e dureranno fino all’8 settembre. Per il direttore tecnico Alessandro Arcigli sarà la sesta partecipazione ai Giochi. La fantastica avventura è iniziata alle Olimpiadi di Atlanta 1996 ed è proseguita sul fronte paralimpico da Pechino 2008 a oggi.
Ciao Alessandro, la tua carriera di tecnico azzurro è cominciata ben 35 anni fa. Cosa ricordi di allora?
«Nel 1989 avevo soltanto 21 anni e mi è stata affidata la guida degli Allievi, che anagraficamente erano per me un po’ come dei fratelli minori. Sono rimasto fino al 1993 e abbiamo conquistato sei medaglie agli Europei Giovanili. Da fine 1996 a fine 2000 mi sono occupato delle Allieve e delle Juniores e i podi sono stati altri cinque. In tutto il bilancio è stato di quattro ori, tre argenti e quattro bronzi».
In mezzo c’è stata l’esperienza con la Nazionale assoluta femminile?
«Si è sviluppata dal 1994 al 1996 e in quel periodo ho avuto la grande opportunità a cinque cerchi di Atlanta. Avevamo una grande squadra con Fliura Bulatova, Alessia Arisi e Laura Negrisoli. Fliura ha ottenuto il pass grazie al ranking, essendo fra le più forti al mondo. Alessia ha centrato l’obiettivo al torneo di qualificazione di Manchester e a quel punto ho deciso di inseguire l’ammissione in doppio, schierando lei e Laura, che era una giovane promessa. È andata bene e l’Italia ha avuto un terzetto di atlete a rappresentarla negli Stati Uniti. Ho vissuto un capitolo indimenticabile della mia vita sportiva».
Qualche flash?
«Qualche giorno fa ho visto Celine Dion alla cerimonia d’inaugurazione di Parigi e mi sono ricordato che aveva cantato anche ad Atlanta. Eravamo tutti nello Stadio e improvvisamente la parte centrale si è sollevata ed è comparsa lei in mezzo a tutti gli atleti. Quell’anno il tripode fu accesso da Muhammad Alì, che era già malato di Parkinson, ed eravamo tutti lì a sospingerlo al compimento della sua funzione. Non dimenticherò mai che in piena notte sono andato a vedere l’esercizio con il quale Jury Chechi ha ottenuto la medaglia d’oro agli anelli. Mi sono trovavo a pranzo e a cena con Michael Johnson, che aveva vinto i 400 e i 200 e proprio il giorno prima aveva stabilito il nuovo record mondiale sulla distanza più corta. Sono trascorsi molti anni, ma quelle emozioni fanno ancora parte di me, anche dal punto di vista agonistico».
Come andò in campo?
«Bulatova perse nei sedicesimi del singolare e Arisi e Negrisoli negli ottavi del doppio, due ottimi risultati. Nello stesso anno agli Europei a squadre di Bratislava ci eravamo piazzati quinti e solo per il quoziente set non eravamo entrati in semifinale».
Insomma l’esperienza di Atlanta valeva già da sola una carriera?
«È vero e invece nel 2005 mi è stata prospettata la possibilità di assumermi la responsabilità del settore paralimpico. Non immaginavo minimamente che mi si sarebbe spalancata un’altra porta verso lo sport di altissimo livello. Piano piano abbiamo costruito un movimento grazie al quale avremo sette pongisti a Parigi. Abbiamo iniziato a Pechino nel 2008, con l’argento di Pamela Pezzutto e il bronzo di Clara Podda nel singolare di classe 2 e l’argento di entrambe a squadre, con Federica Cudia e Michela Brunelli, alle spalle della Cina, che abbiamo fatto tremare. Sull’1-1 Michela si è trovata a poter vincere il suo singolare. Ricordo ancora con i brividi quella finale nel palazzetto pieno contro le padrone di casa».
A Londra 2012 avete continuato il vostro percorso?
«Per me quella è stata la migliore Paralimpiade dal punto di vista organizzativo, impiantistico e anche emozionale. Quell’edizione ha lasciato il segno e noi siamo ancora saliti sul podio con Pezzutto, argento in singolare. A squadre abbiamo vissuto una delle più cocenti delusioni, perché nella finale per il bronzo contro la Gran Bretagna eravamo in vantaggio per 2-0 e abbiamo perso per 3-2, cedendo i tre punti sempre per 3-2. Successivamente avremmo superato le britanniche in semifinale ai Mondiali del 2014, perdendo in finale per mano della Cina».
Anche a Rio 2016 ci furono degli ottimi motivi per gioire?
«Giada Rossi e Amine Kalem si misero al collo il bronzo nei singolari di classe e furono due medaglie maturate fra il 2015 e il 2016, periodo in cui si sono affermati a livello internazionale. Nessuno dei due partiva con i favori del pronostico. A squadre contro la Corea, nella finale per il terzo posto, abbiamo messo in carniere il doppio e le avversarie hanno risposto nel primo singolare. Nel secondo Brunelli contro la classe 2 Seo si è trovata avanti per 2-0 e 9-8 nel terzo set. Uno spigolo contestato le ha fatto un po’ perdere la concentrazione e il podio è sfumato in extremis. Il bilancio di Rio fu, comunque, positivo».
A Tokyo non c’è invece stata gloria individuale.
«Giada era la favorita in classe 2, ma è uscita negli ottavi a opera della brasiliana Da Silva Oliveira, che allora era la sua “bestia nera”. Ci siamo rifatti a squadre contro la Thailandia, con Rossi che, sull’1-1, ha prevalso sulla loro atleta di classe 3».
Insomma possiamo dire che ai Giochi sei diventato un “serial coach”?
«Dicevo ai ragazzi che quando iniziamo a vivere frequentemente le stesse esperienze vuol dire che stiamo maturando, per non dire “invecchiando” (e ride). L’emozione di volta in volta rimane, però cresce la consapevolezza di ciò che andiamo ad affrontare. Penso a Sara Errani che nei giorni scorsi è riuscita a raggiungere l’obiettivo di una vita, e a Gregorio Paltrinieri, che le medaglie le ha già vinte e le continua a vincere, come se fosse la prima volta, con l’emozione di un esordiente».
Vale anche per i nostri atleti?
«In questo momento ho davanti a me Carlotta Ragazzini, che a Parigi disputerà la sua prima Paralimpiade, e Michela Brunelli, che sarà alla quinta, i meccanismi, però, per entrambe sono molto simili. I Giochi regalano sensazioni uniche e auguro di viverle a chiunque sia nel mondo dello sport, come atleta o tecnico o dirigente. Coronano i sacrifici di una vita e io, che sono a quota sei, posso considerarmi un uomo particolarmente fortunato».